C’è chi l’ha studiata meglio e chi invece l’ha affrontata soltanto en passant.
La sentenza contro Dante Alighieri che si risolve nella sua condanna in contumacia è stata una vera e propria macchia per la politica dell’epoca, anche se per noi oggi risulta altamente rappresentativa di come si gestiva la dissidenza politica nei comuni italiani.
La storia
Era il 27 gennaio 1302 ed era in vigore una legge: chi negli ultimi due anni era stato assolto in precedente giudizio veniva sottoposto a una revisione di sentenza.
Insieme a quattro cittadini fiorentini della fazione dei Bianchi, il Podestà Cante Dei Gabrielli da Gubbio, allora capo di Firenze, condanna in contumacia anche Dante Alighieri.
Un processo in realtà noi moderni smaliziati sappiamo benissimo che ci fu ugualmente, a latere della sentenza.
La sentenza di condanna a Dante Alighieri
Il processo si svolse in stanze segrete, di fronte a candele e volta chiuse, senza presenza di pubblico e ufficialità.
La sua versione pubblica è l’unica che conosciamo: non solo la tremenda, infangante accusa di baratteria, un vero e proprio reato contro la cosa pubblica.
La sentenza di condanna di Dante Alighieri muove anche accuse precise di aver favorito i Guelfi Bianchi contro i Guelfi neri, all’epoca al potere a Firenze.
Si tratta evidentemente di una sentenza strumentale, usata per far scomparire il poeta.
Inizialmente, la pena fu una sanzione pecuniaria di 5000 fiorini, da versarsi entro 3 giorni. Una somma che il sommo poeta mai versò.
La condanna si risolse quindi nella pena peggiore: l’esilio da Firenze.
Dove si trova oggi la sentenza
La sentenza, o meglio le sentenze di condanna, si trovano oggi nell’archivio di Stato di Firenze, all’interno del libro del Chiodo.
Nessuno si è mai preso la briga di revocarle, e in effetti non immagino un critico dantesco battersi per questa riabilitazione. Il sommo poeta, la sua storia l’ha già scritta: il fatto che a 700 anni dalla sua morte ancora ne parliamo mi sembra indicativo del fatto che la sua opera sia imperitura.
E sarà questa a rientrare a Firenze, l’opera, e non il corpo.
«O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.
La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patria natio
a la qual forse fui troppo molesto».
(Inferno, canto X)