La chiamano Ode alla Gelosia, quel bellissimo componimento in strofe saffica che Catullo compose in onore della nota poetessa greca. Ma secondo il mio parere, gelosia non è. Si tratta piuttosto di un racconto da invidioso (e invidiosa, nel caso di Saffo), perché non si desidera che la persona amata si sbarazzi di chi le è vicino, uomo tanto ammirato e simile a un dio, come dicono i due poeti quasi allo stesso modo. Ma no, non c’è odio per nessuno, solo un fiotto di ammirazione, un senso inequivocabile di inferiorità verso questo “dio” che parla con la donna amata.
Il “me misero” che Catullo pronuncia non è infatti riferito a questa terza persona e al suo ruolo nella vicenda, lui è ammirato, è guardato con invidia (più che gelosia). È la donna che, piuttosto, gli provoca dei sentimenti di natura contrastante. Mentre lei ride dolcemente (Dulce ridentem) al poeta si scatena in corpo tutta la sequela tipica di sintomi dell’innamorato.
Dal tremore sottopelle alla sottile febbre, questo è uno dei componimenti che più percorrono la sintomatologia dell’amore carnale, a mio parere molto più che l’invidia.
La lingua, a lui che è poeta, si spegne in bocca e diviene addirittura incapace dell’attività primigenia e più fruttifera dell’uomo: parlare.
Quel che è certo è che di gelosia mai si parla, e questo concetto moderno di possessività non apparteneva né alla greca Saffo, né al romano Catullo.
Testo originale
Ille mi par esse deo videtur,
ille, si fas est, superare divos,
qui sedens adversus identidem te
spectat et audit
dulce ridentem, misero quod omnis
eripit sensus mihi: nam simul te,
Lesbia, aspexi, nihil est super mi
vocis in ore,
lingua sed torpet, tenuis sub artus
flamma demanat, sonitu suopte
tintinant aures, gemina teguntur
lumina nocte.
Otium, Catulle, tibi molestum est:
otio exsultas nimiumque gestis:
otium et reges prius et beatas
perdidit urbes.