Il discorso sui librettisti di Verdi può essere preso alla lontana, elencandoli tutti a partire dalla prima carriera del Maestro per arrivare fino alla sua età matura.
Oppure possiamo partire da una semplice considerazione: i libretti delle opere di Verdi non sono granché.
I librettisti di Verdi: perché nessuno spicca?
Va detto prima di tutto che lo spettatore d’opera non era eccessivamente attento al testo di ciò che andava ad ascoltare. Spesso le luci in sala rimanevano accese per tutta la rappresentazione, e il chiacchiericcio era costante.
Non per niente all’inizio di ogni opera c’è un potentissimo “noise breaker”, come lo chiamano i critici musicali di opera, ovvero un suono tuonante, che dovrebbe ristabilire il silenzio.
Si andava all’opera per incontrarsi, per chiacchierare, per sbirciare dal binocolo la nuova amante di Tizio o Caio. O per vedere il nuovo fiammante vestito di Sempronia.
Ora, non voglio certo banalizzare, ma sono in diversi critici letterari ad essere d’accordo con me: nessun librettista spiccava, e una delle principali ragioni è che, nell’opera, il testo forse non è poi così importante.
I nomi
Abbiamo otto diversi nomi per Verdi: nessuno mai si ricorda di Felice Romani, che ha prestato la sua penna a “Un giorno di regno”, ma ci si tende a dimenticare anche di Temistocle Solera, quello di “Oberto conte di San Bonifacio”, “I lombardi alla prima crociata”, ma anche quello dei più conosciuti “Nabucco”, “Giovanna d’Arco” e “Attila”.
Abbiamo poi i famosi, “Alzira”, “La battaglia di Legnano”, “Luisa Miller” e “Il trovatore” a opera di Salvadore Cammarano e infine Andrea Maffei e Antonio Somma per – rispettivamente – “I masnadieri” e “Un ballo in maschera”. Antonio Ghislanzoni scrive l’Aida e Arrigo Boito Otello e Falstaff.
Infine, c’è Francesco Maria Piave.
Sebbene Arrigo Boito fosse un grande letterato, anche nei suoi lavori assistiamo ad alcuni scivoloni che potrebbero sembrare inspiegabili per un poeta di quella levatura. Li vedremo insieme nel prossimo articolo.