Ho parlato di come la filatelia si collochi egregiamente in una scala intermedia tra il collezionismo accumulatorio più infantile di un bimbo che colleziona le statuine dei videogiochi, e un bibliotecario che colleziona volumi e apre la biblioteca (magari) al pubblico.
La filatelia, dicevo, occupa in questo arco un ruolo perfettamente intermedio: conoscenze storiche di ferro devono sostenere una capacità commerciale ottima, tuttavia il contenuto dell’opera, diciamo la sua semiotica, si ferma al riconoscimento del suo valore da parte della comunità di riferimento. Mi spiego, se il famosissimo “3 Lire di Toscana Faruk” è prezioso, non è perché la mano dell’artista abbia colto una particolare Weltanschauung o abbia sperimentato soluzioni artistiche ardite, o abbia innovato alcunché. E’ raro. E’ considerato prezioso. Tanto basta a renderlo effettivamente prezioso, a riprova del fatto che alcuni francobolli aumentano a volte inspiegabilmente il loro valore man mano che le aste progrediscono, e senza che la loro rarità sia in realtà incrementata.
Ecco, la filatelia mi sembra una forma di collezionismo molto individualistica, escludendo chiaramente il filatelico che la utilizza per parlare in chiave sociologico politica della realtà. Se mai esiste. Comunque, anche utilizzandola strumentalmente, fatico a credere che nel francobollo sia davvero contenuta tutta questa storia. Il francobollo è a metà tra la selce scheggiata e il fermaglio di donna. Qualcosa sulla società dell’epoca ce lo dice, ma lo dice solo perché lo sappiamo leggere. E comunque, dice probabilmente poco.
Ma ecco che arrivo al mio proposito principale, che era quello di parlare della peggior deriva nella quale può incorrere l’arte contemporanea. A fronte di un naturale piacere del collezionismo l’arte contemporanea, anche nei detrattori meno poetici, rischia di sembrare un semplice mercanteggiare dominato dalla legge di mercato. Questo non deve mai accadere. Altrimenti diventerebbe come la filatelia, ma senza la storia. Insomma, si torna alle statuine.