I tempi cambiano.

Cambiano al punto tale che per un ragazzo o ragazza della cosiddetta generazione Z la “politica” non è più, come per la mia generazione, sinonimo di cambiamento, di finalità diverse da quelle materiche e liberaliste dell’esistente. 

Oggi la politica è sinonimo di noia, pesantezza, ma soprattutto di gossip dei partiti e tifo elettorale.

Niente di più lontano dalla concezione della politica che aveva ad esempio Dario Fo.

Fo ha utilizzato il teatro come piattaforma per smascherare la corruzione e l’oppressione esercitate dalle istituzioni governative e religiose, come ormai sappiamo. 

Prendiamo “Morte accidentale di un anarchico” (1970). Qui Fo ci parla di qualcosa che ai miei tempi risuonava molto nel dibattito pubblico, ovvero l’abuso di potere da parte delle forze dell’ordine. 

Attraverso una narrazione farsesca, la pièce mette in luce le manipolazioni e le menzogne utilizzate per coprire la verità sulla morte sospetta di un anarchico durante un interrogatorio di polizia. 

La satira diventa così un medium per parlare d’altro.

Classi oppresse

Un altro aspetto centrale nei lavori di Fo è la rappresentazione delle classi sociali oppresse o marginalizzate, come operai, contadini e disoccupati. 

In “Non si paga! Non si paga!” (1974), ad esempio, affronta il tema dell’inflazione e delle difficoltà economiche delle famiglie proletarie. 

La commedia racconta di un gruppo di casalinghe che, esasperate dall’aumento dei prezzi, decidono di ribellarsi e prendere ciò di cui hanno bisogno senza pagare. 

Attraverso situazioni comiche e paradossali, Fo mette in evidenza le disuguaglianze sociali e stimola una presa di coscienza collettiva.

L’utilizzo dell’umorismo come strumento di denuncia

Fo ha saputo magistralmente combinare l’umorismo con la critica sociale, utilizzando il riso come mezzo per avvicinare il pubblico a temi complessi e spesso scomodi. La sua abilità nel creare personaggi grotteschi e situazioni surreali permette di svelare le contraddizioni della società in modo accessibile e coinvolgente. 

In “Mistero Buffo” (1969), per esempio, reinterpreta storie bibliche e medievali. Una particolarità che a me piace molto è l’uso del grammelot, quel linguaggio inventato senza parole, che è in grado di rendere universale il suo messaggio di contestazione.

L’impegno politico e sociale

Per tornare al mio discorso iniziale: non serve scrivere un saggio alla Habermas o alla Sartre per fare politica, e non serve nemmeno candidarsi in Parlamento.

La satira di Fo, per l’appunto, non è mai stata fine a sé stessa, ma è sempre stata accompagnata da un profondo impegno politico e sociale. 

Quel che mi piacerebbe è avere di fronte una platea di Generazione Z, e raccontare perché Fo è stato così grande per noi, e perché potrebbe essere, il suo, un messaggio ancora del tutto valido.